Testo di Gianfranco Schialvino
Elisabetta Viarengo Miniotti esige un’attenzione meticolosa, uno sguardo al diapason, una “religiosa” statura. Calandosi, compenetrandosi, come lei vuole, fortissimamente vuole, nel Creato, nel suo alfabeto simbolico, nella genealogia del senso, estraneo, beninteso, alle ovvie tessiture. C’è un respiro fantasmatico nell’atelier di Elisabetta Viarengo Miniotti”. Mi è caro ricordarla, nel giorno della sua scomparsa, con queste parole di Bruno Quaranta, che come tanti era rimasto impressionato dal suo impegno: giorno dopo giorno, di olio in incisione, per conquistare uno spicchio di eden, di meraviglia, di bellezza. Per fissare, ricreandola, l’immagine di una bella estate, un treno che va, un cespo di rose, un nuotatore irriducibile. Per evitare, spostare di giorno in giorno, la morte del saper di pingere, così come il suo maestro pre- diletto, Giacomo Soffiantino, l’ultimo naturalista, il mentore nel vergiliato dei boschi, delle acque, dei giardini. Per tutta la vita ha avuto bisogno di pensare alla pittura, di fare della pittura per aiutarsi a vivere, per liberarsi da tutte le impressioni, tutte le sensazioni, tutte le inquietudini cui non avrebbe trovato mai altro scampo che non nella pittura. Sono ormai pochi quelli che dipingono perché sono pittori! C’è chi dipinge per vanità, chi per noia, chi per tirare la giornata, molti per vizio. Elisabetta ha dipinto la natura (“niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose e operatrice…che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse”, scriveva il Boccaccio di Giotto), un paesaggio fatto di rocce, di acqua, di fiori, di grano, di alberi, di figure. Ha dipinto i riflessi della luce e spesso c’è un accenno di ebbrezza nel suo colore, una vibrazione esaltata che pare percorrerla, la natura, sotto la pelle. Che ne fa sentire l’odore. All’alba, fresco di sensazioni che arrivano ora dalle valli ora dal mare; a mezzogiorno, denso di note di resina e di rosmarino, di terra e di paglia; di sera, caldo e acre, asciutto e castano; di notte, terso nel blu profondo, del mare e dell’oltremare, gemmato di lumi. Delicato e violento, profondo e agitato, persino salmastro e fradicio, secco ed assetato. Ma soprattutto azzurro, colore, sapore, suono, mistero di cobalti e turchesi, celesti e turchini. E verde, acerbo e livido, verdume e verzura, erbe e fronde, freschezza, rigoglio, vigore. E talvolta il giallo, biondo rossiccio di grano, giallastro di pol- vere e gialliccio di fumo; e gialligno, intriso di afa e calura, come l’ittero.
Ci (mi) mancherà, è stata un’amica.