Boschivo ricercare
Isola di San Rocco al ponte delle Ripe
Mondovi
Testo di Angelo Dragone
Ma son da guardarsi come pagine di un album della memoria. La striscia di un bosco o un paesaggio macchiato da radi cespugli al pari dell’intrico luminoso d’un sole prigioniero tra i rami di un albero o del pezzo di corteccia di un tronco di betulla steso, con l’estremo lembo destro in grado di saldarsi al segmento di sinistra. Così nelle tempere come nelle incisioni. Una realtà spaziale non tanto rappresentata quanto mentalmente ritrovata, nella concretezza d’una figurazione permeata di valori essenziali, partecipi di un interiore mondo espressivo.
A meno di un anno dalla “personale” ordinata a Torino nelle sale di “Tuttagrafica”, dove riunì una ventina di incisioni (datate tutte negli Anni Novanta), Elisabetta Viarengo Miniotti le ripropone in questi giorni, quasi a confronto con una scelta della coeva produzione pittorica su carta. Si tratta di dipinti che a colte anticipanoquegli stessi temi boscherecci, a volte li riprendono, mettendo a prova i modi espressivi di un’acuta sensibilità e l’impegno di una specie di ricerca che si potrebbe definire trasversale, per la maniera con cui l’artista ideatrice vien passando da certe complesse tecniche dominate da un impulso segnino, ad altre, caratterizzate invece da fattori più tipicamente indotti da una sottile ispirazione cromatica. L’oggetto – il tratto di un tronco di betulla, una semplice scorza (da leggersi tutta nel suo sviluppo) o un nodo, come le trame visive d’un intero Bosco nel sole, o L’albero caduto – sembra dunque posto ogni volta al centro d’una sorta di fuoco incrociato, diretto da punti diversi, sul motivo assunto come pretesto d’una serie di originali indagini ri creative, senza lasciarsi mai tentare dall’idea d’una semplice derivazione nn più che linguistica, intesa a passare dall’una all’altra immagine, attraverso una quasi concatenata serie di, più o meno suggestive, indotte provocazioni. In altri termini. Non troveremo mai un’incisione tratta da una tempera o viceversa, ma soltanto dal vero o da quello schizzo che, del vero aveva prefissato l’essenza del motivo, impregiudicati gli sviluppi futuri.
L’oggetto – il tratto di un tronco di betulla, una semplice scorza (da leggersi tutta nel suo sviluppo) o un nodo, come le trame visive d’un intero Bosco nel sole, o L’albero caduto – sembra dunque posto ogni volta al centro d’una sorta di fuoco incrociato, diretto da punti diversi, sul motivo assunto come pretesto d’una serie di originali indagini ri-creative, senza lasciarsi mai tentare dall’idea d’una semplice derivazione nn più che linguistica, intesa a passare dall’una all’altra immagine, attraverso una quasi concatenata serie di, più o meno suggestive, indotte provocazioni. In altri termini. Non troveremo mai un’incisione tratta da una tempera o viceversa, ma soltanto dal vero o da quello schizzo che, del vero aveva prefissato l’essenza del motivo, impregiudicati gli sviluppi futuri. Nelle tante vaste pagine incise ( sino al massimo di cm. 65X50 di Screpolature) prevale l’attento uso strumentale di tecniche aggiuntive alla segnica composizione ricavata con l’acquaforte: segni precisi e finissimi di bulino (come in Motivo orizzontale o in Trama naturalistica), cui può affiancarsi Scorza, per il connubio puntasecca unito al punteggiato di una rotella (in Sviluppo di Betulla); e ancora l’acidatura diretta o il pittoricismo a volte corretto dall’uso del brunitoio (Alberi e Nel bosco), uno dei medium protagonisti del mezzo-tinto (o maniera nera), il procedimento che in questa mostra caratterizza La grande ombra e L’albero nero.
Interessante è vedere come il dispiegarsi d’una corteccia o il più fitto intico di elementi vegetali, nei lavori di Elisabetta Viarengo Miniotti assuma il senso di un vecchio palinsesto, di un’antica superficie sulla quale il tempo stesso ha finito col lasciare la stratificata sua impronta. Ed è, forse, ciò che anche Pino Mantovani aveva notato in Albero disteso definendolo come “felice corrispondenza realizzata fra i due tempi, il tempo dell’immagine e il tempo della realtà”. Ed è come dire anche un percorrere “il tempo delle cose insieme con il tempo di elaborazione dell’immagine” L’impressione è che Elisabetta Viarengo Miniotti sia giunta a costruire lentamente le strutture relative alla realtà da lei osservata, e tradotta in favole, sogni, serbandone tuttavia una memoria limpida, viva, come di cose ben sperimentate anche se poi relegate poi ai livelli più intimi, quasi di subconscio, per mescolarsi ad altre proiezioni emotive, ed offrirsi infine a far da supporto ad un linguaggio flessibilmente sensitivo, e non soltanto ad un dettato dai meri riscontri formali.
Gli accadimenti che danno vita alle sue figurazioni rimangono presenti nelle trame umanissime, e sia pure altrimenti vere, anche nel tratto di una morsura, come nel sottile velo di colore in cui l’urto sensuale s’addolcisce in un segno di sentimentale trasparenza.