E fu la luce
Presentazione di Gianfranco Schialvino
Già nel anno 1992 Pino Mantovani aveva colto una inesorabile contraddizione, tra la libertà del gesto e la complicazione del tessuto nell’ intervento realizzatore, nell’opera di Elisabetta Viarengo Miniotti, definendo proprio in questo contrasto l’aspetto più interessante della sua
produzione artistica. In questa mostra, dove accanto alle incisioni troviamo i disegni, pastelli costruiti con un accentuato senso divisionistico del
colore (tassello, iridio, farina di giaggiolo), l’aspetto diacopico in cui Elisabetta si coinvolge, in una involuzione che infine sembra premiare la nobilitazione del segno, si fa assolutamente palese.
L’analisi di questo percorso, la lunga accidentata strada verso la rappresentazione realizzabile nell’ispirazione di un’artista, è facilitata dalla presenza di gran parte del suo repertorio tematico, ma mi soffermerò sui due ultimi filoni soltanto, come fase conclusiva di un processo lungo e involuto: gli alberi, betulle soprattutto, e le acque. Nei tronchi e nei particolari delle cortecce la libertà delle linee è assoluta; la molteplicità degli interventi diretti sulla matrice, dalla puntasecca al brunitoio alla rotella, alla stessa amidatura fuori cera, ha, a mio parere, rappresentato la fuga, la libertà, l’uscita dal collegio, dallo schema,
l’ubriacatura del possesso, della capacità, della subordinazione, obbedienza, controllo, del tramite; l’ebbrezza del top gun che si avvita nella picchiata avventata che trapassa il muro del suono i, nella consapevolezza del dominio sulla macchina; lei sulla lastra, che accetta ogni capriccio, ogni stratificazione, ogni raschiatura, con manipolazione addirittura scultorea.
Nelle acque c’è come un ripensamento, un esodo – catabasi, pentimento, riflusso; il progressivo rientro alla norma, l’accettazione del canone, l’aborrimento del refuso, il redde rationem al tecnicismo. Il foglio del passaggio (uno dei) è “Immergersi”, del 1994, dove la precedente asprezza segnica del nodo sul tronco quasi combacia con la violenza del corpo estraneo che qui rompe l’immobilità del fluido. E addirittura la scelta del tema dell’acqua mi sembra una necessità di protezione, di rifugio, di immersione in un amniotico panicismo rassicurante e consolatorio, in un edonismo arcadico.
Può significare altresì l’aver raggiunto una nuova meta, campo base a superiore quota, addirittura la maturità, dopo le fasi dell’apprendimento (gli interni calandriani e le Composizioni soffiantiniane) e della consapevolezza (i Boschi testé descritti, tutti “suoi”, inconfondibilmente) che sfocia, come accadde per le farfalle, nella metamorfosi del segno: da traccia a materia a disegno. Può ancora essere viaggio, direzione: dall’atelier, portone, città, alla natura. Nell’aria, i rami (le braccia alzate, le mani) protesi al cielo, che si oppongono al vento, e nelle acque: so nuotare, domo l’elemento ostile che mi accetta e mi sorregge.
Ma guardiamo di nuovo ai disegni, per capire che c’è infine risoluzione, anche se la battaglia (ricerca, sperimentazione, strategia) è tuttavia effettivamente in atto. Il controllo del segno appare costrizione, il vincolo; la tecnica, bagaglio prezioso, diventa fardello pesante, inibitore: è un’equazione che vuole risultato. La lotta è con l’indipendenza, la rottura, di argini, di sbarre, di orizzonti. Una diade solo all’apparenza insuperabile, ma che per Elisabetta è rivolgimento continuo di funzioni e di posizioni: razionalità compositiva e sollecitazioni visionarie, vortici ipnotici e zavorre processuali, corsare astrazioni liberatorie e algore tecnico. Aspre morsure brucianti e pomate cerose lenitrici.
E’ dai pezzi di questa scacchiera (la regola del gioco e il genio del giocatore) che nascono gli ultimi fogli, acqueforti e pastelli in parallelo, gravidi di alfabeti e di combinazioni, di linguaggi e di armonia. L’alchimia della fusione, dei corpi e degli elementi, della trasformazione, col fuoco e con l’acido, della sublimazione, con la purificazione della distillazione, porta alla chiarificazione, alla pietra filosofale che cicatrizza la cesura, alla sintesi estrema: i frammenti (tasselli, tessere, briciole, cristalli, coriandoli) si raccolgono finalmente nel crogiolo dell’ispirazione, caleidoscopio in cui è il confine (gabbia, perimetro, margine, vincolo, coercizione) che realizza la figura, che muta e trasforma e imprevedibilmente si rinnova a ogni giro del cilindro, sempre ordinata da una necessità sola, motore e meta, sintesi ed essenza, creazione e dio, deus ex machina almeno: la luce.