La natura come verità artistica
Galleria d’Arte Micrò
Torino
Testo di Gianfranco Schialvino
Elisabetta Viarengo Miniotti trova nella natura la dimora dei suoi simboli. Incontra l’acqua nella natura: l’acqua che è rigeneratrice della vita, l’acqua nei suoi movimenti, nella sua tensione, nel suo carico. Elisabetta converge lo sguardo sul manto di un prato, lo ricopre di soffice neve, raccoglie la propria attenzione su una betulla, ne legge la sua fragilità e la sua pelle. Elisabetta vaga nei boschi in cerca di certezze, fa delle escursioni su di un fiore. E tutta questa sua ricerca non per copiare l’acqua, il prato, la betulla, il fiore, ma per fare ostinatamente della pittura. L’acqua diventa sua quando ruba alla stessa le sue forme, il suo ribollire, le sue linee, quando le stesse diventano segno, colore, movimento, composizione. La sua sapienza pittorica riesce a distribuire pause, zone di riposo a stati di animazione, mentre strato dopo strato, stesura dopo stesura conservano la freschezza dell’immediatezza.
Il manto di un prato è un accumulo di segni, tutti direzionati per comporre, per contenersi in quella zona prescelta della superficie. Il segno non come chiaroscuro ma come porzione di pittura, un segno che si accosta ad altri segni, che si interseca, che muta direzione, che si oppone per comporre, che s’intreccia in un ordito per una trama, per un racconto.
Testo di Giacomo Soffiantino
Elisabetta converge lo sguardo sul manto di un prato, lo ricopre di soffice neve, raccoglie la propria attenzione
su una betulla, ne legge la sua fragilità e la sua pelle. Elisabetta vaga nei boschi in cerca di certezze, fa delle
escursioni su di un fiore. E tutta questa sua ricerca non per copiare l’acqua, il prato, la betulla, il fiore, ma per fare ostinatamente della pittura. L’acqua diventa sua quando ruba alla stessa le sue forme, il suo ribollire, le
sue linee, quando le stesse diventano segno, colore, movimento, composizione. La sua sapienza pittorica riesce a distribuire pause, zone di riposo a stati di animazione, mentre strato dopo strato, stesura dopo stesura conservano la freschezza dell’immediatezza.Il manto di un prato è un accumulo di segni, tutti direzionati per comporre, per contenersi in quella zona prescelta della superficie. Il segno non come chiaroscuro ma come porzione di pittura, un segno che si accosta ad altri segni, che si interseca, che muta direzione, che si oppone per comporre, che s’intreccia in un ordito per una trama, per un racconto.
Quando Elisabetta entra in un bosco, seleziona forme che diventano antropomorficamente umane. Sono i personaggi dei suoi sogni, dei suoi incubi. La necessità di fare pittura elimina la profondità, lo spazio. Porta tutto sulla superficie, per un controllo severo, fermando le immagini della sua espressività soggettiva. Nel bosco sceglie gli elementi del suo quadro: la betulla, le radici, il folto, il chiuso. Il bianco della betulla nel bruno del bosco, una forma dove sono incisi i segni del tempo. Infine l’uomo. E come Elisabetta è entrata nella natura così
l’uomo entra nell’acqua. Viaggiano insieme acqua e uomo, colore e segno, stasi e movimento: la natura come verità artistica. Le sue opere non si fermano a ciò che rappresentano, ma emanano il mistero che dà vita alle sue opere, quel mistero che le fa durare e che va oltre a ciò che si vede.