Memorie e silenzi
Galleria Il Quadrato Salone del Ghetto Chieri
Testo di Giovanni Cordero
Dipinge tele, con segni decisi e risoluti, come fossero incisioni e incide lastre, con mano leggera e sicura, come fossero acquerelli.
Ricava paesaggi, ambientazioni, scorci e nature morte come fossero ritratti.
Sono elementi della natura illuminati da una luce radente e romanticamente corruschi. Isola un particolare, individua un soggetto, lo studia, lo ricompone, lo riplasma incessantemente, nel desiderio di colmare la sua ansia di introspezione. Ora sulla tela domina il colore sciolto e liquido,
ora pastoso e materico, denso e compatto. Qui la luce e le vibrazioni ardenti della vampa del sole liberano scintille vitalistiche, là con l’avanzare dell’ombra viene evocato il mistero e suscitato l’arcano sgomento per il nulla che tutto inghiotte ed azzera ogni cosa.
Le incisioni sono impregnate di aria e profumi autunnali. I tralci della vite, su cui è appoggiato un leggiadro scialle dai toni accesi ed infuocati come un roseto in fiore, si stagliano su uno sfondo muto e immenso. Una sintesi emotiva del lavoro femminile in vigna, di forte impatto psicologico e grande capacità narrativa.
Descrive piccoli teatri naturali mossi e piegati dopo il passaggio di un elemento perturbatore. Sono anfratti, forre, campi e stagni fermi, immobili, come attoniti, quasi cristallizzati.
Ancora si percepisce la sorpresa, l’attimo stupefatto pieno di suspance per l’evento inatteso. Ci pare di udire attutito e lontano un mormorio, un brusio,
un’ eco che si allontana e lascia la materia organica tremula e avvolta da un tepore umido e velato.
La luce penetra nelle fibre vegetali, nel fogliame e nell’oca dello stagno, come una lama e trasforma la natura in una simbolica “vanitas” che testimonia la caducità di ogni forma vivente. Il tempo si è fermato e ogni filo d’erba, spiga, foglia, tralcio di vite, zolla, pozza d’acqua, perdono il
loro profilo netto e si sciolgono in un colore che vira verso sembianze aniconiche, astratte, informali.
La realtà diventa impalpabile, leggera, si svapora, un’ombra prepotentemente invade la scena e la squarcia. Una sorta di sottile languore percorre l’aria e la luce del meriggio penetrando nelle pieghe della natura rivela ‘humus sensibile e fragile come l’animo umano.
Con inquietudine il nostro sguardo cerca un appiglio solido a cui appoggiarsi, un confine certo in cui ritrovarsi, una linea di orizzonte precisa, entro cui circoscrivere la nostra presenza nel mondo, per stabilire la nostra posizione rispetto al tutto, per evitare di essere assorbiti in una
vertigine, in uno spaesamento inquietante, in una dimensione spaziale e sconosciuta.
Ma nei quadri di Elisabetta Viarengo Miniotti non trovi mai un orizzonte netto e preciso, allora la nostra coscienza esperisce con sgomento quel senso intimo di vastità e di estensione interiore descritto da Leopardi.
Un turbamento per quel senso di infinito che è solo mentale e che viene generato da un ostacolo esterno: la siepe oltre la quale l’immaginazione vede: “Interminato spazio… e sovrumani silenzi”
Sovrumani, propriamente, in un immaginario che va oltre la siepe, oltre le fronde primaverili dell’albero sulla collina che si piega di traverso e occulta l’orizzonte, oltre il campo di messi battute dal vento estivo, oltre gli steli d’erba appassiti e l’acqua stagnante dell’ansa di un torrente, oltre
il fasciame di granoturco abbandonato sul ciglio di un campo dopo la raccolta autunnale
Testo di Gian Alberto Farinella
da La Stampa 5 novembre 2010
Intensità e delicatezza
Elisabetta Viarengo Miniotti “dipinge tele, con segni decisi e risoluti, come fossero incisioni; e incide lastre,
con mano leggera e sicura, come fossero acquarelli”. Con queste felici parole Giovanni Cordero introduce la
personale dell’artista torinese che inaugura sabato 6 novembre, alle ore 18, presso i locali della galleria II
Quadrato, via della Pace 8 a chieri ( e prosegue fino al 4 dicembre con il seguente orario: dal martedì al sabato
dalle 16,30 alle 19, chiuso domenica e lunedì).
Campo di grano – olio su tela – cm 33 x 45 – 2008
Sono osservazioni che colgono nel segno – è il caso di dirloin quanto è proprio il mormorio del segno che offre la cifra stilistica di maggior rilievo di Elisabetta Viarengo Miniotti. Che siano stampe all’acquaforte o oli su tela, acrilici o acquarelli, la tessitura di fondo si manifesta attraverso ‘irruenza e la febbrile sutura del gesto, tale da ricomporre la trama della composizione. La costruzione delle sue tele è delicata e intensa, mentre i contrasti dei colori sono soffusi, immersi in una atmosfera silente e gravida di nostalgia, in cui la coscienza trova ristoro nell’intimità offerta dalla natura.Una pannocchia, uno stagno, un campo di granoturco, un grappolo d’uva, un intreccio di foglie, una corteccia di betulla, sono frammenti di un paesaggio interiore percorso da vibrazioni cromatiche, trattenute dall’inquietudine del segno.La separazione, il distacco analitico, il frazionamento che essi suggeriscono, si affidano a modalita narrative metamorfiche, ad accenti visionari, dove la figura sfuma in un controllato astrattismo, in una scrittura per immagini. ‘Piccoli teatri naturali’ avvolti nel volo della memoria.